Tesina di Balázs Kerber su una poesia di Daniele Piccini
con la valutazione del poeta
Kerber Balázs
L’analisi di una poesia di Daniele Piccini
-L’inverno come il simbolo dell’ incertezza-
Vorrei parlare di una poesia di Daniele Piccini (Io che non credo al mondo...) e analizzare il modo con il quale la poesia esprime uno stato d’animo un po’ malinconico, un’atmosfera incerta, usando i motivi dell’inverno, e in connessione con l’inverno, il motivo del nascondiglio. Nella poesia la natura, la condizione del mondo è minacciosa, e nello stesso tempo rimane stazionaria, fredda, ma anche estranea e triste. L’inverno è certamente un simbolo forte, ma in questo caso non simboleggia propriamente il trapasso. Diventa il simbolo di un rapporto umano incerto e lo stato della solitudine prolungata. L’inverno significa inquietudine, l’attesa di un arrivo, ma non l’arrivo della primavera, non è il simbolo solito. Significa l’arrivo di un rapporto sperato, forse un amore. L’arrivo sarà nel futuro, ma non é affatto certo. Ma l’attesa è certa, ed anche il buio è certo. Cosí la poesia parla solo dell’attesa, e non parla dell’arrivo vero.
L’inizio ci mostra giá una tensione: Io che non credo al mondo (cosí il mondo esterno è problematico, è un dubbio) e penso tu sia dentro di me da sempre (cosí la persona aspettata, forse una donna amata, significa una forza interna che aiuta il parlante, e cosí c’è una contrapposizione tra il mondo esterno e la persona aspettata). Un punto molto interessante della poesia, secondo me, è che il parlante nelle prime righe del testo separa l’anima interna dal mondo (anima come un tipo di forza e mondo come paura e dubbio), ma dopo usa immagini dal mondo esterno per esprimere lo stato dell’anima. Le immagini invernali della seconda parte sono più una realtà interna.
Anche se nella poesia lo stato d’animo, le credenze, le attese non sono veramente separate, nella superficie del testo questa differenza è ben costruita; nella terza e nella quarta riga appare il mondo incomprensibile con gli avvenimenti inattesi (ma forse occorre il soffio di una morte, lo schiaffo del presente). Forse proprio queste righe ci raccontano la ragione per la quale il parlante ha bisogno della forza interna. Il parlante non può conoscere a fondo il mondo esterno; gli avvenimenti lo sorprendono sempre, e ha paura di questi avvenimenti repentini, non sa mai che cosa succederà. Lo schiaffo é una parola fortissima per esprimere questa paura. La parola ma, la contrapposizione tra le due frasi (penso tu sia dentro di me da sempre, ma forse occorre…) forse significano che anche questo mondo interno é frangibile. Lo schiaffo ed il soffio di morte esprimono che il parlante non è solo inquieto, ma ha paura dell’avvenimento di cose veramente tragiche. Cosí la condizione del mondo è stazionaria, non succede ancora niente, ma c’è la possibilitá della tragedia. E forse questo mondo incomprensibile, al quale il parlante non crede, è piú inquieto e peggiore della tragedia, perché qualsiasi cosa (completamente inattesa) può succedere. Ma forse il sentimento della solitudine è più forte della paura: il parlante aspetta una persona (che adesso non è la realtá, soltanto é dentro di lui).
Cosí la poesia descrive un processo: nella prima parte conosciamo la differenza tra il mondo e il desiderio (la persona desiderata che c’è dentro), dopo capiamo la paura degli avvenimenti inattesi, che possono frangere anche questa realtá personale ed interna, e nella terza parte sarà chiaro che la paura non è il sentimento unico del parlante, ma è forse più importante che non succede nulla, e la persona aspettata non è arrivata. L’inquietudine vera del testo si nasconde proprio in queste dualità: l’inverno e le immagini mostrano lo stato dell’anima, ma l’anima é separata dal mondo, il parlante ha paura degli avvenimenti, ma anche aspetta gli avvenimenti, proprio l’arrivo della persona appellata (tu sia…). Il mondo non cambia, è freddo ed estraneo, ma questa tranquillità triste e malinconica puó diventare la scena di una tragedia, in questa tranquilitá si può nascondere la morte, ed anche lo schiaffo di una forza ancora ignota, che adesso è invisibile. Il parlante puó essere salvato solo dalla persona amata, che forse verrà, ma alla fine della poesia l’arrivo rimane incerto. Nella successiva parte del processo, dopo l’apparizione della solitudine, anche il ruolo della persona amata diventa incerto. Nelle prime righe della poesia ha simboleggiato proprio una forza, qualcosa che c’è dentro e non è cosí estraneo come il mondo esterno. Adesso il suo arrivo è associato con le stesse paure e con la stessa malinconia che prima avevano simboleggiato il mondo esterno (i rami della neve, la tana). Appare il simbolo del nascondoglio (la tana) che puó essere in connessione con la paura del mondo, con l’evasione. La tana diventa simile all’anima e la realtá interna, la difesa. Qui anche c’è una dualitá: mentre un’atmosfera personale appare con le immagini del mondo invernale (cosí la realtà interna ed esterna si mescolano), l’immagine della tana separa di nuovo i sentimenti interni dal mondo vero. Questa è una domanda vera della poesia: che cosa c’è dentro e che cosa c’è fuori? Il parlante cerca un tipo di identità, e questa identitá appare nel mondo visibile, nei sentimenti ed anche nella persona desiderata e cercata. Può essere salvato da questa persona? Non sappiamo, e non sappiamo nemmeno il tempo del suo arrivo. Al verso undicesimo (Io non ho fede in niente che ci accada) ritorna l’incertezza generale della poesia che era raccontata con le immagini invernali. Questo verso sottolinea di nuovo i dubbi del parlante. Nel verso dodicesimo c’è una novità: fino a questo punto i sentimenti interni e il mondo visibile si mescolavano solamente nel profondo, così il lettore aveva bisogno di immaginazione o doveva creare connessioni tra le righe, ma adesso il sentimento e la realtá si mescolano anche nella superficie: guardo nel petto nascere le nubi. Questa immagine può significare tristezza malinconica, ma anche minaccia: le nubi che nascono possono simboleggiare la crescente possibilità della tragedia (soffio di una morte, schiaffo). Cosí, mentre cambia la superficie della poesia, questo verso sottolinea anche la dualità del senso. Nel verso tredicesimo c’è una personificazione molto strana:…il buio fa il suo nido. Il buio appare come un animale: questo è spaventoso, perché l’uomo ha una paura molto antica del buio, e la paura può diventare maggiore quando il buio è personificato come un’altra creatura, cioè un essere non umano. Il buio da questo momento non é solo un fenomeno naturale, ma un essere estraneo. Ma questo verso naturalmente può significare anche un’atmosfera rassegnata, un’impressione malinconica, perché il nido può essere interpretato anche come „casa”. In questo senso la riga ci racconta solamente che il buio diventa stazionario. Anzi, la parola „nido” ha un senso intimo: è un posto caldo e comodo, dove qualcuno (uomo o animale?) vive. Qui forse possiamo vedere un gioco cosciente: i sensi diversi ci danno altre interpretazioni e rafforzano tutte le atmosfere della poesia. Nell’ultimo verso (neanche lí posso vederti, adesso) sará chiaro che la persona desiderata è invisibile in ogni senso, e l’incontro non è certo. L’inverno, in questa poesia, é diventato il simbolo del buio. È un tempo in cui si nascondono pericoli invisibili. Quando dobbiamo fuggire in una tana o dobbiamo avere qualcuno o qualcosa dentro di noi che ci rafforza. L’inverno è malinconico, stazionario, ma nello stesso tempo spaventoso. Non è proprio il simbolo della morte, significa la paura della morte, o più la paura della solitudine.
È interessante che questo gioco cosciente sia presente anche nella letteratura contemporanea ungherese, con motivi e immagini molto simili. Per esempio, nella poesia di Bajtai András, Ne me quitte pas, l’inverno e la neve appaiono come simboli del passato, della malinconia. Anche qui c’è una persona appellata, una donna, con cui il parlante non è più insieme, di cui si ricorda. Anzi, anche qui è presente il simbolo degli animali e della natura. Ci sono esempi un po’ piú lontani anche nel ventesimo secolo: nella poesia di József Attila, L’autunno, le paure personali e le immagini naturali si mescolano ed il mondo dell’anima umana, i dubbi e problemi sociali sono trasformate in fenomeni naturali. Questa poesia non è malinconica, ma anche qui c’è una crescente possibilitá di morte, di tragedia e i segni di questa possibilità sono nascosti nelle immagini, proprio come nella poesia di Daniele Piccini.
La mia conclusione è che questa poesia presenta l’inverno come un simbolo molto interessante, con una concezione nuova, per cui la natura invernale è un’esternazione del parlante che cerca la sua identitá e una persona desiderata.
TESTI:
LA POESIA DI DANIELE PICCINI:
LA POESIA DI JÓZSEF ATTILA:
JÓZSEF ATTILA
Ősz
Tar ágak-bogak rácsai között
kaparásznak az őszi ködök,
a vaskorláton hunyorog a dér.
Fáradtság üli a teherkocsit,
de szuszogó mozdonyról álmodik
a vakvágányon, amint hazatér.
Itt-ott kedvetlen, lompos, sárga lomb
tollászkodik és hosszan elborong.
A kövön nyirkos tapadás pezseg.
Batyuba szedte rongyait a nyár,
a pirosító kedvü oda már,
oly váratlanul, ahogy érkezett.
Ki figyelte meg, hogy, mig dolgozik,
a gyár körül az ősz ólálkodik,
hogy nyála már a téglákra csorog?
Tudtam, hogy ősz lesz s majd fűteni kell,
de nem hittem, hogy itt van, ily közel,
hogy szemembe néz s fülembe morog.
L’AUTUNNO
(Traduzione di Kerber Balázs)
Tra i reticoli dei rami spogli
le nebbie autunnali razzolano,
e la brina strizza gli occhi sulla ringhiera di ferro.
Nel vagone merci la stanchezza siede,
ma il vagone sogna di una locomotiva sbuffante,
al binario morto, quando ci ritorna.
Qua e là le fronde gialle, svogliate, sciatte
si spollinano, si addolorano a lungo,
ed un’aderenza umida spuma sulle selci.
Dopo aver messo i suoi stracci in una sacca,
l’estate, che imbelletta i visi, è partita,
cosí repentinamente come è arrivata.
Chi ha notato che l’autunno
si aggirava intorno alla fabbrica durante il lavoro,
che la sua saliva gocciolava sui mattoni?
Sapevo che l’autunno sarebbe venuto, che avrei dovuto riscaldare,
ma non credevo che fosse così vicino,
che guardasse ai miei occhi, e mormorasse ai miei orecchi.
LA POESIA DI BAJTAI ANDRÁS:
BAJTAI ANDRÁS
Ne me quitte pas
Végül is nem utaztunk el Koppenhágába.
Pedig nézhettük volna együtt a hóesést,
mint azon az első közös délelőttön
a Mária utcai lakás ablakából, összebújva.
De az így kellett volna kései tanulságából
mostanra nem maradt más, mint a szégyen
és bűntudat felesleges körvonalai, hiszen
te már régen megbocsátottál nekem,
de én magamnak - még mindig nem.
Azon a télen pedig amúgy sem esett annyi hó,
ami betemethette volna a sok múlt idő
és feltételes mód közöttünk húzódó árkait.
Elengedtük egymást, ahogyan a rácsok
mögött született állatokat engedik vissza
a vadonba, ha felnőttek; te azóta talán
már újra szőke vagy, én pedig megőszültem,
csak ezt még kevesen veszik észre.
Egyre ritkábban hallgatom meg közös
dalunkat, amelynek címét mostanáig csak
mi tudtuk, de alig észrevehetően még most
is összerezzenek, ha meglátok egy lányt,
egy nőt piros ruhában az utcán. Mert lappangsz
bennem, mint az az elszáradt gesztenye
a fiókomban, te, a harapós lány, aki a leghidegebb
napjainkon a bokáján hordta karóráját.
NE ME QUITTE PAS
(Traduzione di Kerber Balázs)
Finalmente non abbiamo viaggiato a Copenaghen,
dove avremmo potuto guardare la nevicata insieme,
come quella prima mattina, abbracciati,
dalla finestra dell'appartamento in Via Maria.
Ma dell’insegnamento tardivo di „avremmo dovuto fare cosí”
non è rimasto altro che le linee inutili della vergogna
ed il senso di colpa, perché tu mi hai perdonato
tanto tempo fa, ma io stesso non ancora.
In quell’inverno non nevicava abbastanza
per ricoprire le fosse del passato e dei modi condizionali fra noi.
Ci siamo lasciati, come lasciano andare gli animali nati in cattivitá
alla selva, quando sono giá cresciuti. Forse da allora
tu sei già bionda di nuovo. Io sono già grigio,
ma solo poche persone l’hanno notato ancora.
Io sempre piú raramente ascolto la nostra canzone comune,
il titolo della quale finora solo noi sapevamo.
È difficile notare, ma anche adesso mi spavento,
quando avvisto una donna o una ragazza per strada,
che indossa vestiti rossi, perché tu sei nascosta in me,
come quella castagna rinsecchita nel mio cassetto,
tu, la ragazza mordace, che nei giorni piú freddi
indossava il suo orologio sulla caviglia.
Valutazione della tesina
L’analisi di un mio testo poetico condotta da Kerber Balázs è di rara profondità e capacità analitica, soprattutto nell’interrogare il significato dei simboli e delle immagini che fluiscono nella poesia e che il poeta, inevitabilmente, non calcola e non pondera a livello cosciente. Tuttavia la serrata indagine rivela allo stesso autore la rete di rimandi e collegamenti in cui il testo consiste e che in qualche modo è autoesplicativa. L’inverno come condizione di isolamento e di solitudine sospesa è certamente un elemeno portante della poesia, così come la forza percussiva e tellurica del desiderio, dell’attesa di un’apparizione. Tutta la tensione del testo è appunto in questa polarità.
Dunque l’esame di Kerber Balázs ha saputo arrivare al cuore del componimento, usando mezzi tecnici, puntuali, ma anche raffinati. L’interprete, del resto, non si ferma a questa già acuta indagine: con sensibilità e mezzi da comparatista, individua (e traduce in italiano) due testi della poesia ungherese moderna e contemporanea (tra cui la notevolissima L’autunno di József Attila) che presentano delle analogie simboliche e di situazione con la poesia italiana punto di partenza dell’indagine. Ciò rivela l’universalità poetica di alcune delle soluzioni impiegate e, nella analogia, le sfumature di significato che esse assumono in ciascuno dei poeti.
In conclusione, la tesina mostra un’acutezza di sguardo critico, un bagaglio di letture e di conoscenze e una padronanza dell’italiano davvero notevoli.
D. P.
L’analisi di una poesia di Daniele Piccini
-L’inverno come il simbolo dell’ incertezza-
Vorrei parlare di una poesia di Daniele Piccini (Io che non credo al mondo...) e analizzare il modo con il quale la poesia esprime uno stato d’animo un po’ malinconico, un’atmosfera incerta, usando i motivi dell’inverno, e in connessione con l’inverno, il motivo del nascondiglio. Nella poesia la natura, la condizione del mondo è minacciosa, e nello stesso tempo rimane stazionaria, fredda, ma anche estranea e triste. L’inverno è certamente un simbolo forte, ma in questo caso non simboleggia propriamente il trapasso. Diventa il simbolo di un rapporto umano incerto e lo stato della solitudine prolungata. L’inverno significa inquietudine, l’attesa di un arrivo, ma non l’arrivo della primavera, non è il simbolo solito. Significa l’arrivo di un rapporto sperato, forse un amore. L’arrivo sarà nel futuro, ma non é affatto certo. Ma l’attesa è certa, ed anche il buio è certo. Cosí la poesia parla solo dell’attesa, e non parla dell’arrivo vero.
L’inizio ci mostra giá una tensione: Io che non credo al mondo (cosí il mondo esterno è problematico, è un dubbio) e penso tu sia dentro di me da sempre (cosí la persona aspettata, forse una donna amata, significa una forza interna che aiuta il parlante, e cosí c’è una contrapposizione tra il mondo esterno e la persona aspettata). Un punto molto interessante della poesia, secondo me, è che il parlante nelle prime righe del testo separa l’anima interna dal mondo (anima come un tipo di forza e mondo come paura e dubbio), ma dopo usa immagini dal mondo esterno per esprimere lo stato dell’anima. Le immagini invernali della seconda parte sono più una realtà interna.
Anche se nella poesia lo stato d’animo, le credenze, le attese non sono veramente separate, nella superficie del testo questa differenza è ben costruita; nella terza e nella quarta riga appare il mondo incomprensibile con gli avvenimenti inattesi (ma forse occorre il soffio di una morte, lo schiaffo del presente). Forse proprio queste righe ci raccontano la ragione per la quale il parlante ha bisogno della forza interna. Il parlante non può conoscere a fondo il mondo esterno; gli avvenimenti lo sorprendono sempre, e ha paura di questi avvenimenti repentini, non sa mai che cosa succederà. Lo schiaffo é una parola fortissima per esprimere questa paura. La parola ma, la contrapposizione tra le due frasi (penso tu sia dentro di me da sempre, ma forse occorre…) forse significano che anche questo mondo interno é frangibile. Lo schiaffo ed il soffio di morte esprimono che il parlante non è solo inquieto, ma ha paura dell’avvenimento di cose veramente tragiche. Cosí la condizione del mondo è stazionaria, non succede ancora niente, ma c’è la possibilitá della tragedia. E forse questo mondo incomprensibile, al quale il parlante non crede, è piú inquieto e peggiore della tragedia, perché qualsiasi cosa (completamente inattesa) può succedere. Ma forse il sentimento della solitudine è più forte della paura: il parlante aspetta una persona (che adesso non è la realtá, soltanto é dentro di lui).
Cosí la poesia descrive un processo: nella prima parte conosciamo la differenza tra il mondo e il desiderio (la persona desiderata che c’è dentro), dopo capiamo la paura degli avvenimenti inattesi, che possono frangere anche questa realtá personale ed interna, e nella terza parte sarà chiaro che la paura non è il sentimento unico del parlante, ma è forse più importante che non succede nulla, e la persona aspettata non è arrivata. L’inquietudine vera del testo si nasconde proprio in queste dualità: l’inverno e le immagini mostrano lo stato dell’anima, ma l’anima é separata dal mondo, il parlante ha paura degli avvenimenti, ma anche aspetta gli avvenimenti, proprio l’arrivo della persona appellata (tu sia…). Il mondo non cambia, è freddo ed estraneo, ma questa tranquillità triste e malinconica puó diventare la scena di una tragedia, in questa tranquilitá si può nascondere la morte, ed anche lo schiaffo di una forza ancora ignota, che adesso è invisibile. Il parlante puó essere salvato solo dalla persona amata, che forse verrà, ma alla fine della poesia l’arrivo rimane incerto. Nella successiva parte del processo, dopo l’apparizione della solitudine, anche il ruolo della persona amata diventa incerto. Nelle prime righe della poesia ha simboleggiato proprio una forza, qualcosa che c’è dentro e non è cosí estraneo come il mondo esterno. Adesso il suo arrivo è associato con le stesse paure e con la stessa malinconia che prima avevano simboleggiato il mondo esterno (i rami della neve, la tana). Appare il simbolo del nascondoglio (la tana) che puó essere in connessione con la paura del mondo, con l’evasione. La tana diventa simile all’anima e la realtá interna, la difesa. Qui anche c’è una dualitá: mentre un’atmosfera personale appare con le immagini del mondo invernale (cosí la realtà interna ed esterna si mescolano), l’immagine della tana separa di nuovo i sentimenti interni dal mondo vero. Questa è una domanda vera della poesia: che cosa c’è dentro e che cosa c’è fuori? Il parlante cerca un tipo di identità, e questa identitá appare nel mondo visibile, nei sentimenti ed anche nella persona desiderata e cercata. Può essere salvato da questa persona? Non sappiamo, e non sappiamo nemmeno il tempo del suo arrivo. Al verso undicesimo (Io non ho fede in niente che ci accada) ritorna l’incertezza generale della poesia che era raccontata con le immagini invernali. Questo verso sottolinea di nuovo i dubbi del parlante. Nel verso dodicesimo c’è una novità: fino a questo punto i sentimenti interni e il mondo visibile si mescolavano solamente nel profondo, così il lettore aveva bisogno di immaginazione o doveva creare connessioni tra le righe, ma adesso il sentimento e la realtá si mescolano anche nella superficie: guardo nel petto nascere le nubi. Questa immagine può significare tristezza malinconica, ma anche minaccia: le nubi che nascono possono simboleggiare la crescente possibilità della tragedia (soffio di una morte, schiaffo). Cosí, mentre cambia la superficie della poesia, questo verso sottolinea anche la dualità del senso. Nel verso tredicesimo c’è una personificazione molto strana:…il buio fa il suo nido. Il buio appare come un animale: questo è spaventoso, perché l’uomo ha una paura molto antica del buio, e la paura può diventare maggiore quando il buio è personificato come un’altra creatura, cioè un essere non umano. Il buio da questo momento non é solo un fenomeno naturale, ma un essere estraneo. Ma questo verso naturalmente può significare anche un’atmosfera rassegnata, un’impressione malinconica, perché il nido può essere interpretato anche come „casa”. In questo senso la riga ci racconta solamente che il buio diventa stazionario. Anzi, la parola „nido” ha un senso intimo: è un posto caldo e comodo, dove qualcuno (uomo o animale?) vive. Qui forse possiamo vedere un gioco cosciente: i sensi diversi ci danno altre interpretazioni e rafforzano tutte le atmosfere della poesia. Nell’ultimo verso (neanche lí posso vederti, adesso) sará chiaro che la persona desiderata è invisibile in ogni senso, e l’incontro non è certo. L’inverno, in questa poesia, é diventato il simbolo del buio. È un tempo in cui si nascondono pericoli invisibili. Quando dobbiamo fuggire in una tana o dobbiamo avere qualcuno o qualcosa dentro di noi che ci rafforza. L’inverno è malinconico, stazionario, ma nello stesso tempo spaventoso. Non è proprio il simbolo della morte, significa la paura della morte, o più la paura della solitudine.
È interessante che questo gioco cosciente sia presente anche nella letteratura contemporanea ungherese, con motivi e immagini molto simili. Per esempio, nella poesia di Bajtai András, Ne me quitte pas, l’inverno e la neve appaiono come simboli del passato, della malinconia. Anche qui c’è una persona appellata, una donna, con cui il parlante non è più insieme, di cui si ricorda. Anzi, anche qui è presente il simbolo degli animali e della natura. Ci sono esempi un po’ piú lontani anche nel ventesimo secolo: nella poesia di József Attila, L’autunno, le paure personali e le immagini naturali si mescolano ed il mondo dell’anima umana, i dubbi e problemi sociali sono trasformate in fenomeni naturali. Questa poesia non è malinconica, ma anche qui c’è una crescente possibilitá di morte, di tragedia e i segni di questa possibilità sono nascosti nelle immagini, proprio come nella poesia di Daniele Piccini.
La mia conclusione è che questa poesia presenta l’inverno come un simbolo molto interessante, con una concezione nuova, per cui la natura invernale è un’esternazione del parlante che cerca la sua identitá e una persona desiderata.
TESTI:
LA POESIA DI DANIELE PICCINI:
LA POESIA DI JÓZSEF ATTILA:
JÓZSEF ATTILA
Ősz
Tar ágak-bogak rácsai között
kaparásznak az őszi ködök,
a vaskorláton hunyorog a dér.
Fáradtság üli a teherkocsit,
de szuszogó mozdonyról álmodik
a vakvágányon, amint hazatér.
Itt-ott kedvetlen, lompos, sárga lomb
tollászkodik és hosszan elborong.
A kövön nyirkos tapadás pezseg.
Batyuba szedte rongyait a nyár,
a pirosító kedvü oda már,
oly váratlanul, ahogy érkezett.
Ki figyelte meg, hogy, mig dolgozik,
a gyár körül az ősz ólálkodik,
hogy nyála már a téglákra csorog?
Tudtam, hogy ősz lesz s majd fűteni kell,
de nem hittem, hogy itt van, ily közel,
hogy szemembe néz s fülembe morog.
L’AUTUNNO
(Traduzione di Kerber Balázs)
Tra i reticoli dei rami spogli
le nebbie autunnali razzolano,
e la brina strizza gli occhi sulla ringhiera di ferro.
Nel vagone merci la stanchezza siede,
ma il vagone sogna di una locomotiva sbuffante,
al binario morto, quando ci ritorna.
Qua e là le fronde gialle, svogliate, sciatte
si spollinano, si addolorano a lungo,
ed un’aderenza umida spuma sulle selci.
Dopo aver messo i suoi stracci in una sacca,
l’estate, che imbelletta i visi, è partita,
cosí repentinamente come è arrivata.
Chi ha notato che l’autunno
si aggirava intorno alla fabbrica durante il lavoro,
che la sua saliva gocciolava sui mattoni?
Sapevo che l’autunno sarebbe venuto, che avrei dovuto riscaldare,
ma non credevo che fosse così vicino,
che guardasse ai miei occhi, e mormorasse ai miei orecchi.
LA POESIA DI BAJTAI ANDRÁS:
BAJTAI ANDRÁS
Ne me quitte pas
Végül is nem utaztunk el Koppenhágába.
Pedig nézhettük volna együtt a hóesést,
mint azon az első közös délelőttön
a Mária utcai lakás ablakából, összebújva.
De az így kellett volna kései tanulságából
mostanra nem maradt más, mint a szégyen
és bűntudat felesleges körvonalai, hiszen
te már régen megbocsátottál nekem,
de én magamnak - még mindig nem.
Azon a télen pedig amúgy sem esett annyi hó,
ami betemethette volna a sok múlt idő
és feltételes mód közöttünk húzódó árkait.
Elengedtük egymást, ahogyan a rácsok
mögött született állatokat engedik vissza
a vadonba, ha felnőttek; te azóta talán
már újra szőke vagy, én pedig megőszültem,
csak ezt még kevesen veszik észre.
Egyre ritkábban hallgatom meg közös
dalunkat, amelynek címét mostanáig csak
mi tudtuk, de alig észrevehetően még most
is összerezzenek, ha meglátok egy lányt,
egy nőt piros ruhában az utcán. Mert lappangsz
bennem, mint az az elszáradt gesztenye
a fiókomban, te, a harapós lány, aki a leghidegebb
napjainkon a bokáján hordta karóráját.
NE ME QUITTE PAS
(Traduzione di Kerber Balázs)
Finalmente non abbiamo viaggiato a Copenaghen,
dove avremmo potuto guardare la nevicata insieme,
come quella prima mattina, abbracciati,
dalla finestra dell'appartamento in Via Maria.
Ma dell’insegnamento tardivo di „avremmo dovuto fare cosí”
non è rimasto altro che le linee inutili della vergogna
ed il senso di colpa, perché tu mi hai perdonato
tanto tempo fa, ma io stesso non ancora.
In quell’inverno non nevicava abbastanza
per ricoprire le fosse del passato e dei modi condizionali fra noi.
Ci siamo lasciati, come lasciano andare gli animali nati in cattivitá
alla selva, quando sono giá cresciuti. Forse da allora
tu sei già bionda di nuovo. Io sono già grigio,
ma solo poche persone l’hanno notato ancora.
Io sempre piú raramente ascolto la nostra canzone comune,
il titolo della quale finora solo noi sapevamo.
È difficile notare, ma anche adesso mi spavento,
quando avvisto una donna o una ragazza per strada,
che indossa vestiti rossi, perché tu sei nascosta in me,
come quella castagna rinsecchita nel mio cassetto,
tu, la ragazza mordace, che nei giorni piú freddi
indossava il suo orologio sulla caviglia.
Valutazione della tesina
L’analisi di un mio testo poetico condotta da Kerber Balázs è di rara profondità e capacità analitica, soprattutto nell’interrogare il significato dei simboli e delle immagini che fluiscono nella poesia e che il poeta, inevitabilmente, non calcola e non pondera a livello cosciente. Tuttavia la serrata indagine rivela allo stesso autore la rete di rimandi e collegamenti in cui il testo consiste e che in qualche modo è autoesplicativa. L’inverno come condizione di isolamento e di solitudine sospesa è certamente un elemeno portante della poesia, così come la forza percussiva e tellurica del desiderio, dell’attesa di un’apparizione. Tutta la tensione del testo è appunto in questa polarità.
Dunque l’esame di Kerber Balázs ha saputo arrivare al cuore del componimento, usando mezzi tecnici, puntuali, ma anche raffinati. L’interprete, del resto, non si ferma a questa già acuta indagine: con sensibilità e mezzi da comparatista, individua (e traduce in italiano) due testi della poesia ungherese moderna e contemporanea (tra cui la notevolissima L’autunno di József Attila) che presentano delle analogie simboliche e di situazione con la poesia italiana punto di partenza dell’indagine. Ciò rivela l’universalità poetica di alcune delle soluzioni impiegate e, nella analogia, le sfumature di significato che esse assumono in ciascuno dei poeti.
In conclusione, la tesina mostra un’acutezza di sguardo critico, un bagaglio di letture e di conoscenze e una padronanza dell’italiano davvero notevoli.
D. P.
Tesina di Lilian Papp sul romanzo di Giuseppe Lupo
con la valutazione dello scrittore
Papp Lilian
GIUSEPPE LUPO: L’ULTIMA SPOSA DI PALMIRA
Il concetto del sogno
„Ciascuno di noi si porta appresso una
casa e una città dove abita tutta la vita,
l’altra vita, quella del sogno, la più vera
se pure la più labile.”
L.Sinisgalli, Furor mathematicus
Queste sono le prime righe con cui incontrano i nostri occhi aprendo l’ultmio libro di Guseppe Lupo, L’ultima sposa di Palmira. Una citazione da L. Sinisgalli, poeta e ingenere del ventesimo secolo, che si nomina matematico e dietro questa maschera parla dell’importanza del sogno, un sogno che anche se labile, fa parte della vita di ciascuno. Questa sua caratteristica labile é dovuto al fatto che appartiene ad un “altra vita” cioé non fa parte della realtá pura. Realtá e sogno, e il gioco tra questi due concetti sono quelli che determinano e penetrano tutto il romanzo.
Prima di estendere la nostra discussione all’analisi dei concetti centrali del libro, dobbiamo ritornare per un attimo al motto succitato. Quando L.Sinisgalli afferma che “Ciascuno di noi si porta appresso una casa e una città dove abita tutta la vita”, intende anche lo scrittore tra questo cerchio, uno che anche porta la sua tradizione e visione del mondo in sé, un mondo che vale la pena da notare per capire i vari livelli del concetto del sogno applicato nel libro.
Giuseppe Lupo é nato in Lucania, a Atella, tra le linee dei Appennini. Un dato geografico che non puó essere ignorata studiano il libro di Lupo, un dato che ci da una bussola nella mano per orientarsi. La sua nascita e crescita in un territorio montuoso oltre gli avventimenti e i personaggi determinanti della sua vita si trovano posto sulle pagine. Basta citare un intervista con lo scrittore per verificare quanto sono determinanti questi momenti e caratteristiche della sua vita.
„ Il terremoto ha dato alla mia vita una piega inaspettata: in quell’inverno di solitudine e di morte ho scoperto che i libri possono riempire i vuoti e allontanare la paura” e „è l’unico personaggio realmente esistito, un ricordo della mia infanzia”
Quest'ultima parte della citazione fare testo sul falegname, rappresentato nel libro sotto il nome Mastro Gerusalemme.
Riprendendo il filo sull’importanza del posto geografico, quello che nel caso del nostro scrittore era una localitá montuosa l’atmosfera determinante che ha lasciato una traccia profonda nella sua visione del mondo. Secondo il concetto della visione verticale della carta d’Italia, ci sono due tipi di territori che determinano la mentalitá dei loro abitanti: le pianure e le montagne. Nei territori montuosi si trovano delle localitá piccole, gran parte chiuse in sé, dove le storie ed i ricordi si accumulano e si tramontano trovando un terreno fertile nella mente della gente per la perpetuazione. Proprio questa memoria viene adattata nel libro di Lupo. A questo punto possiamo fare la domanda: come mai non viene il romanzo inondato dai dati storici che legano alla vita dello scrittore? Come e con quali mezzi capace di oltrepassare quella narrativa realistica-giornalistica caratteristica nei romanzi contemporanei, su cui Gianni Celati fa una critica forte:
„La narrativa d’oggi è ormai un’appendice dell’informazione giornalistica. È difficile trovare un romanzo d’oggi che non si appelli all’attualità”
Sebbene Lupo salva elementi realistici della sua vita, cioé il terremoto, il personaggio del falegname, ecc., nello stesso tempo capace di metterli sul livello utopistico. Fa un gioco tra la realtá e tra il sogno.
Ricordiamo che il terremoto marcato con la data 23 Novembre 1980 nel libro, in sé potrebbe essere l’inizio di un libro realistico- giornalistico. Ma aggiungendo quello che l’unico attestato che non viene rovinato è la bottega del falegname, Mastro Gerusalemme, dove vengono preparati i mobili nuziali di Rosa Consilio, l’unica discendete della generazione di Patriarca Maggiore, fondatore della città di Palmira sono elementi che servono di aiutare allontanarsi dal tempo del terremoto e collocare le storie raccontate nei tempi antichi se non bibbici. In fine gli atti del Maestro anche sono convincenti: ricrenando la storia della città sui mobili nuziali racconta la storia delle generazioni riproducendo una realtà passata sul livello mitico.
Il livello della realtà anche se le storie e gli eventi dopo il terremoto si intrecciano viene ben separata dalle storie fantastiche nel libro: con la suddivisione in capitoli ed anche con l’uso della lingua dialettale nei dialoghi delle storie raccontate l’autore capace di creare l’atmosfera del mito.
Arrivato al livello mitico del testo dobbiamo ricordare che nel libro il concetto del sogno c’é presente in due livelli. Per primo in quei ricordi fantastici raccontati che fanno parte della memoria, la memoria di un utopia passata. Questi ricordi danno la „casa” e „l’altra vita” come dice Sinisgalli anche per il falegname. Importanza dell’utopia della memoria spiega bene l’altro tipo d’utopia compreso nella narrazione: il sogno della storia, cioé quello del futuro. Senza i ricordi e la tradizione sulle spalle dopo che il terremoto raso a terra tutto non avremmo la capacitá di proiettare il futuro in avanti. Le due tipi dell’utopia si intrecciano nel libro di Lupo, non può essere trascurato nè l’uno nè l’altro: senza raccontando, ricrdando e creando le storie sui mobili neanche Mastro Gerusalemme sarebbe capace di sognare un futuro per Palmira.
Leggendo le storie abbiamo il senso che Mastro Gerusalemme non c’è veramente presente nella vita reale, non vuole far parte della vita della Palmira rasa a terra. Ricordiamo alle parole tornanti del maresciallo Fortina, che già nella prima pagina del romanzo ci avverte:
„ Il mondo è in ginocchio e a voi preme solo il mobilio di Rosa Consilio”
„Fortina pensa che tutte le stranezze di Palmira siano figliate dal cervello di mastro Gerusalemme.”
Le parole del maresciallo ci chiamano per cercare il senso del comportimento del falegname. Una cosa è sicura: non era per caso che solo la bottega del Maestro è rimasto a piedi dopo la disgrazia, ma lui ha un ruolo, ha un compito da completare, più nobile, più importante della rimozione dei cadaveri. Il confiltto tra loro e il comportimento strano del falegname non inteso, in verità é un conflitto tra sogno e realtà. Questo dissidio viene sciolto solo dalla storia dell’ultimo giorno, tra le ultime righe:
„Come non credere alla leggenda di Matusalemme?” aggiunse Cosimo Infantino mentre si asciugava nell’erba. „Se nessuno va a disturbarli, quei patriarchi resteranno sotto le querce almeno fino al prossimo millenio” E furono le ultime parole che si pronunciarono a Palmira prima del terremoto”
Matusalemme secondo la tradizione bibbica era settimo discendente di Adamo, il nonno di Noe, la sua leggenda si trova nel libro della Genesi. Già nella sua vita Dio ordina Noe di costruire la barca, ma solo dopo la sua morte viene il Mondo inondato. La genesi di Palmira comincia con l’atto di fondazione della Patriarca Maggiore: da vita a quaranta discendenti, crea il soggiorno della famiglia, nomina il commune dopo la sua prima moglie, e investe i discendenti della sua sapienza di mestieri. Con la sua morte miracolosa cominciano gli avvenimenti fantastici che sempre circondano quelli che sono in contatto della famiglia d’origine. Non credere nella storia di Matusalemme nello stesso tempo significa non credere nella storia dei discendenti di Palmira e in questo modo nell’utopia della memoria. Come l’indondazione da dio, il terremoto anche arriva perché la mancanza di fede: solo la bottega di Mastro Gerusalemme non diventa una rovina perché è l’uno che crede nell’utopia. Qui possiamo citare il lamento del falegname che nello stesso tempo possiamo considerare la critica della società, una lista delle colpe:
„Di ragazzi in chiesa negli ultimi tempi non si vedeva nemmeno l’ombra..”
„Da tempo cercava una persona disposta ad ascoltarlo e ha dovuto aspettare il terremoto per sfogare la sua fantasia. A Palmira nessuno gli dà retta. I ragazzi preferiscono passeggiare in piazza anziché andare a bottega da lui…prima il biliardo, poi la radio, poi Lascia o raddoppia…”
A questo punto il maestro anche avvisa la dottoressa del suo ruolo che viene come abbiamo già visto nella fine del libro: “ Vi siete chiesta perché il terremoto proprio ora, dottoressa Pettalunga?”
Dottoressa Pettalunga appare in Palmira dopo il terremoto. Lei è una giornalista, tipo che è interessata negli avvenimenti nel mondo reale. A questo punto torniamo un momento a Gianni Celati e alla citazione identifica
„La narrativa d’oggi è ormai un’appendice dell’informazione giornalistica. È difficile trovare un romanzo d’oggi che non si appelli all’attualità”
Non é per caso che Giuseppe Lupo sceglie un giornalaio come coppia del falegname: lei é legato troppo al mondo della realtá mentre il maestro al contrario, al sogno.
Al momento dell’arrivo Pettalunga è un forestiero, arriva dal Nord, da un mondo segnato sulle carte d’Italia, vive in realtà. Eppure è proprio lei che diventa quell’ascoltatore che il falegname aspettava da un tempo. Un altra scelta ottima per mantere il gioco tra i due concetti contrari.
Possiamo anche dire che Seharazad trova il suo Shahriyar, per cui racconta le storia delle Mille e Una Notte. Questo contesto tra i due libri non solo vale per la narrazione: in libro orientale il narrativo si batte per la sua salvezza, così come agisce Mastro Gerusalemme per il salvataggio del sogno della storia e la tradizione. Non si accorge che anche se il suo sogno della storia per il motivo della fuga di Rosa Consilio non può essere portato al compimento ma l’utopia della memoria si tramanda e si conserva grazie al giornalaio. Quel giornalaio, che arrivando al questo fazzoletto di terra dopo la sua iniziazione nel’ utopia della memoria e nel sogno della storia del falegname; poi sará capace di aiutare la fuga di Rosa ma nello stesso tempo a trasportare la tradizione con i suoi mangianastri.
Sulle macerie di Palmira nasce Nuova Palmira, ma senza Rosa Consilio é una cittá senza sogni, senza colori, dove il nome di tutti posti vengono dimenticati, solo il cimitero che non viene rovinato. Il cimitero dei sogni e della tradizione, l’unico posto che richiama quelli tempi quando Palmira non era segnato neanche nelle carte.
Valutazione della tesina:
„Ho letto e la trovo, per quanto mi riguarda, interessante, soprattutto la parte relativa al discorso della doppia utopia. Credo che Lilian Papp ha compreso il libro, ha capito la sua anima e questo si vede. Ci sono alcune imprecisioni formali, pero non so se costituisce un problema e comunque sono facilmente emendabili.
Questo e' il mio giudizio. Per cui credo che questo lavoro abbia le caratteristiche per comparire sul sito.”
G.L.
Tesina di Ágnes Ludmann su un dipinto italiano del
Museo delle Belle Arti di Budapest
Ágnes Ludmann
Artemisia Gentileschi e la sua opera, Giaele e Sisara nella collezione Esterházy nel Museo delle Belle Arti di Budapest
Ho sentito nominare la prima volta Artemisia Gentileschi da mio padre, storico dell’arte e appassionato della pittura italiana di Caravaggio e dei Caravaggeschi, e sinceramente mi ha colpito subito la storia della pittrice. Dopo aver visitato la collezione del Museo delle Belle Arti durante l’Università estiva ho notato con piacere misto di sorpresa, che anche la collezione Esterhàzy dispone di una pittura di Artemisia (posizionato a fianco di un quadro di stile fiammingo, quasi da un richiamo aperto per comparare i due stili), e perciò ho deciso di dedicare questa tesina alla pittura della figlia di Orazio Gentileschi.
Alcuni dati biografici, importanti per la formazione e per la carriera della pittrice
Artemisia nacque a Roma il 8 luglio 1593 come figlia del noto pittore toscano Orazio Gentileschi. Suo padre è il più importante tra i cosidetti caravaggeschi, che tramette tramite la sua arte il caravaggismo romano, da qui quindi il primo incontro con l’arte barocco e settecentesco. Possiamo affermare che prese da lui le caratteristiche drammatiche delle pennellate e l’effetto di teatralità che rappresentano le sue opere.
Artemisia studiava il mestiere della pittura (disegno, mescolamento dei colori e le gradazioni) presso la bottega di suo padre, ma dimostrava presto un talento precoce ben maggiore che i suoi fratelli minori, che studiavano sempre lì. Dobbiamo però sottolineare che anche l’ambiente romano e le amicizie del padre, resero la casa dei Gentileschi un centro di incontro tra i nomi più noti dell’arte della pittura romana di quell’epoca, hanno favorito lo sviluppo della sensibilità artistica della giovante pittrice. E’ anche probabile che la pittrice incontrò personalmente Caravaggio che secondo le testimonianze spesso andava a prendere in prestito degli strumenti di pittura alla casa Gentileschi. (Dal punto di vista sociale dell’epoca tutti sappiamo che nel Settecento una donna era ancora considerata come madre di famiglia e moglie: fare una carriera diversa da queste mansioni accettate e quasi richieste dalla società era quasi impossibile, quindi Artemisia poteva praticare l’arte maggiormente per il padre.)
Dipinse la sua prima opera, con l’aiuto del padre, a 17 anni, che porta il titolo Susanna e i vecchioni. Nella tela è ben visibile, oltre l’influsso del Caavaggio, anche l’effetto della scuola bolognese che prese le sue caratteristiche da Annibale Carracci.[1]
Suo padre conobbe in nel periodo del 1612 Agostino Tassi, maestro di prospettiva, una figura, che determinò per sempre la maniera pittorale della giovane ragazza. Orazio affidò il compito dell’insegnamento a Tassi, il quale, mentendo la fiducia del collega, violentò sua figlia, e promise matromonio, nonostante fosse sposato. Tra l’altro, al tempo dello stupro lavorava assieme a Orazio Gentileschi, nella decorazione a fresco delle volte del Casino delle Muse nel Palazzo Pallavicini Rospigliosi a Roma. Orazio lo denunciò e la causa durò ben 7 mesi. Del processo è rimasta una testimonianza documentata molto dettagliata che colpisce con la sua naturalezza nello descrivere i metodi inquisitori del tribunale (come ripetere le accuse mentre si schiacciano i pollici che per un artista costituisce una sofferenza ancora maggiore). La descrizione era riscoperta nel XX secolo, e con la chiave di lettura femminista è diventata famosissima.
Dopo la chiusura del processo Orazio sbrigò un matrimonio per Artemisia con un pittore modesto fiorentino - con il quale si trasferì poco dopo a Firenze, anche per dimenticare - che servì a restituire alla figlia umiliata nel suo essere donna e pittrice uno status sociale di sufficiente onorabilità.
A Firenze ebbe tanti successi: prima di tutto venne ammessa all’Accademia delle Arti del Disegno, il ciò è importante perché fu la prima donna che poteva godere di questo privilegio[2]. Inoltre, seppe mantenere buoni rapporti con gli aristocrati di Firenze, come anche la famiglia Medici, Galileo Galilei o Michelangelo Buonarroti il giovane, non soltanto per le buone parole di suo padre, ma più per il suo talento sempre più evidente. Le sue opere più famose dal periodo fiorentino sono la Conversione della Maddalena e la Giuditta con la sua ancella, oggi visibili al Palazzo Pitti e una seconda versione della Giuditta che decapita Oloferne[3]. E’ importante dire che Artemisia spesso realizza un autoritratto nelle figure femminil, sempre energiche, in atto di movimento. Spesso fa così perché glielo chiedono i committenti, per poter ricordare il volto della pittrice sempre più famosa.
Dopo il soggiorno fiorentino la pittrice nel 1621 ritorna a Roma - anche per problemi di convivenza e scontri con i creditori - da sola, indipendente con le figlie, l’anno prossimo invece è suo padre che si allontana dalla città eterna, recandosi a Genova.
Roma in quegli anni è ancora caratterizzata dalla presenza dei caravaggeschi, ma cominciano a sbocciarsi le tendenze classicheggianti della scuola bolognese, come appaiono piano piano anche i segni del barocco.
Artemisia si ritrovò bene a Roma, grazie alla sua capacità di adattarsi alle novità artistiche presenti a Roma, come segno per questo basta ricordare che la pittrice entrò a far parte dell'Accademia dei Desiosi. Tuttavia, nonostante la notorietà dell’autrice, questo periodo romano non fu così ricca di commissioni, come la pittrice avrebbe aspettato dopo i successi fiorentini. Sono probabilmente databili in questo periodo le seguenti opere sue: il Ritratto di gonfaloniere, esempio per le capacità da ritrattista della pittrice o la Giuditta con la sua ancella che attesta la sua capacità di padroneggiare gli effetti chiaroscurali del lume di candela.
Nel 1630 si trasferì a Napoli con la speranza di poter godere di più possibilità di lavoro, rispetto a Roma. Una sua opera caratterizzata e creata nell’ambito partenopeo è l’Annunciazione.[4] Il periodo a Napoli risulta fruttuoso da tutti i punti di vista: Artemisia conobbe gli artisti maggiori presenti nella città meridionale, ricevette delle commissioni importante, e dal punto di vista umano, potè dedicarsi anche all’edicazione delle proprie figlie. Tra l’altro, è a Napoli, che la pittrice eseguì delle commissioni per dipingere delle tele per una chiesa, la cattedrale di Pozzuoli. (cfr. nota 3.)
Nel 1638 l’attrice si recò a Roma per raggiungere suo padre, pittore di corte di Carlo I, appassionato di arte (dispone della pittura di Artemisia di particolare rilievo dal titolo Autoritratto in veste di Pittura), e i due potevano di nuovo collaborare nella realizzazione di alcune commissioni, finchè il padre non morì nel 1639.
Dopo Londra, in base alle informazioni presenti in corrispondenze con altri pittori e collezionisti, probabilmente tornò a Napoli, dove morì nel 1653.
Analisi dell’opera
La scena rappresentata dalla pittrice prende come oggetto una scena dell’Antico Testamento. Giaele, dopo aver chiamato con furbizia Sisara, che e’ un capitano sconfitto dell’esercito degli israeliti, che viene seguito e sfugge dai nemici, lo uccide infilandogli un chiodone di ferro nel cranio,
La scena sembra tranquilla a prima vista, il guerriero basso e non particolarmente attraente come uomo, dorme tranquillamente e profondamente, la posizione del suo corpo è comodo e sembra che cerchi la vicinanza di Giaele, anche per riaparasi dagli incubi. Sisara costituisce un elemento statico, fermo nella parte sinistra del quadro, ma il suo stato comincia a dare una sensazione paurosa agli spettatori, anche per lo sfondo nero (tipico dei caravaggeschi) in contrasto evidente con il giallo del vestito di Giaele o i colori morbidi del velluto della veste di Sisara.
La figura della ragazza che è invece in movimento, non statica. E’ vestita di giallo setoso di particolar lume, quasi da unica fonte di luce rispecchiata dal colore nella scena, un colore vivo, agressivo, in contrasto con il bianco pallido della pelle di Sisara o il rosso spento del suo vestito. Giaele è pronta a colpire, tutta energica, concentrata, distrugge l’apparente tranquillità del quadro con il movimento del braccio. Il guerriero ha posato anche la spada – vediamo la particolare attenzione dedicata alla rappresentazione dei dettagli minimi - in giusta distanza, fidandosi completamente della donna, che lo colpisce nel sonno, e non da guerriero, non in modo onesto, ma con intrica. La crudelta’ del suo movimento, la fermezza nello sguardo toglie la sua eleganza derivante dai vestiti e dall’acconciatura, e la rende una donna forte e determinata che domina la scena e nonostante di natura sia più debole dell’uomo riesce a vincerlo alla fine.
Solo la tematica del quadro lo può rendere somigliante all’opera forse più famosa della pittrice, la già menzionata Giuditta decapita Oloferne: entrambi esprimono - però in maniera del tutto diversa - lo shock subito dallo stupro. Ci puo’ essere un riferimento anche la figura maschile dei capelli neri e barbuto, ma non oso di dichiarare delle affermazioni del genere, che sarebbero troppo forzate.
Gli elementi del chiaroscuro sono segni dell’esperienza caravaggesca: nello sfondo nero ricoperto di ombra si legge solo il nome della pittrice scolpita su una colonna o ara o tomba di marmo.[5]
Gli strumenti per l’omicidio richiamano il Nuovo Testamento della Bibbia: chiodo e martello, conosciuti per tutti come cause della morte di Cristo.
Appendice
GENTILESCHI, Artemisia. Giaele e Sisara
Bibliografia, sitografia e „esperienzografia personale”
Tiziana Agnati, Artemisia, Dossier Art n° 172, Giunti, 2001
http://www.svreeland.com/image-gal.html
http://it.wikipedia.org/wiki/Artemisia_Gentileschi
Visita della mostra Caravaggio e i Caravaggeschi a Firenze, 2010.
Film di Agnes Merlet, Artemisia. Passione Estrema. Francia 1998, Con Michel Serrault, Valentina Cervi, Miki Manojlovic, Claudia Giannotti, Anna Lelio, doppiato e sottotitolato in ungherese, andato in onda su Duna TV.
A művészet története. A barokk. Corvina Kiadó, Budapest, 1987.
[1] Oggigiorno è discusso se la tela non fosse stata retrodatata dalla pittrice stessa: sulla figura di Susanna è ben visibile la pressione dei due maschi, uno, in base alle testimonianze registrate durante il processo di stupro, somigliante a Tassi, l’altro maschio, più vecchio invece mostra delle similtudini con l’incisione che rappresenta Orazio Gentileschi, eseguito da Antoon Van Dyck.
[2] E’ da precisare, che nonostante la fama di Artemisia, non solo lei era una pittrice nota nell’epoca: la sua scelta era difficile, ma non eccezionale, basti pensare a nomi come Sofonisba Anguissola.
[3] E’ importante sottolineare, che la pittura dal titolo Giuditta che decapita Oloferne che rappresenta una scena violentissima, soprattutto nell’ultimo periodo delle ricerche scientifiche è stata spesso interpretata in chiave psicologica e psicoanalitica, come desiderio di rivalsa rispetto alla violenza subita.
[4] Spesso si dimenticano o si mettono da parte apposta le opere della pittrice che non rappresentano scene bibliche, con delle eroine energiche che uccidono l’uomo presente nel quadro, nonostante abbia compiuto anche delle tele di tematiche bibliche di una tonalità non così scura, ma illuminata dal potere della fede, come il quadro in questione.
[5] Forse un pensiero troppo forzato, ma questi strumenti potrebbero essere anche utilizzati per lo scolpire del nome della pittrice sulla colonna di marmo. Si potrebbe dare quindi un’interpretazione autobiografica alla scena - sempre mantenendoci al livello della soggettività e non mescolando troppi elementi biografici nel pensiero – come se Artemisia stessa, rappresentata un po’ da Giaele anche dalle linee del suo volto, desse il suo consenso alla morte dell’uomo, e firmasse la sua condanna a morte.
Giudizio del Prof. Alessandro Rovetta:
La scheda sul dipinto di Artemisia Gentileschi conservato presso il Museo di Belle Arti di Budapest e proveniente dalla collezione Estherazy é organizzata in due parti, la prima dedicata alla pittrice e la seconda all'opera. I dati biografici e critici forniti nel profilo dell'artista sono corretti e consentono un rapido e preciso inquadramento della personalità e del contesto. Anche la descrizione del dipinto raffigurante Sisara e Giaele è molto convincente e introduce con chiarezza alle principali questioni filologiche e iconografiche sollevate dal dipinto. La scrittura e l'argomentazione è vivace e comunicativa. Il giudizio è quindi molto positivo.
Alessandro Rovetta
Artemisia Gentileschi e la sua opera, Giaele e Sisara nella collezione Esterházy nel Museo delle Belle Arti di Budapest
Ho sentito nominare la prima volta Artemisia Gentileschi da mio padre, storico dell’arte e appassionato della pittura italiana di Caravaggio e dei Caravaggeschi, e sinceramente mi ha colpito subito la storia della pittrice. Dopo aver visitato la collezione del Museo delle Belle Arti durante l’Università estiva ho notato con piacere misto di sorpresa, che anche la collezione Esterhàzy dispone di una pittura di Artemisia (posizionato a fianco di un quadro di stile fiammingo, quasi da un richiamo aperto per comparare i due stili), e perciò ho deciso di dedicare questa tesina alla pittura della figlia di Orazio Gentileschi.
Alcuni dati biografici, importanti per la formazione e per la carriera della pittrice
Artemisia nacque a Roma il 8 luglio 1593 come figlia del noto pittore toscano Orazio Gentileschi. Suo padre è il più importante tra i cosidetti caravaggeschi, che tramette tramite la sua arte il caravaggismo romano, da qui quindi il primo incontro con l’arte barocco e settecentesco. Possiamo affermare che prese da lui le caratteristiche drammatiche delle pennellate e l’effetto di teatralità che rappresentano le sue opere.
Artemisia studiava il mestiere della pittura (disegno, mescolamento dei colori e le gradazioni) presso la bottega di suo padre, ma dimostrava presto un talento precoce ben maggiore che i suoi fratelli minori, che studiavano sempre lì. Dobbiamo però sottolineare che anche l’ambiente romano e le amicizie del padre, resero la casa dei Gentileschi un centro di incontro tra i nomi più noti dell’arte della pittura romana di quell’epoca, hanno favorito lo sviluppo della sensibilità artistica della giovante pittrice. E’ anche probabile che la pittrice incontrò personalmente Caravaggio che secondo le testimonianze spesso andava a prendere in prestito degli strumenti di pittura alla casa Gentileschi. (Dal punto di vista sociale dell’epoca tutti sappiamo che nel Settecento una donna era ancora considerata come madre di famiglia e moglie: fare una carriera diversa da queste mansioni accettate e quasi richieste dalla società era quasi impossibile, quindi Artemisia poteva praticare l’arte maggiormente per il padre.)
Dipinse la sua prima opera, con l’aiuto del padre, a 17 anni, che porta il titolo Susanna e i vecchioni. Nella tela è ben visibile, oltre l’influsso del Caavaggio, anche l’effetto della scuola bolognese che prese le sue caratteristiche da Annibale Carracci.[1]
Suo padre conobbe in nel periodo del 1612 Agostino Tassi, maestro di prospettiva, una figura, che determinò per sempre la maniera pittorale della giovane ragazza. Orazio affidò il compito dell’insegnamento a Tassi, il quale, mentendo la fiducia del collega, violentò sua figlia, e promise matromonio, nonostante fosse sposato. Tra l’altro, al tempo dello stupro lavorava assieme a Orazio Gentileschi, nella decorazione a fresco delle volte del Casino delle Muse nel Palazzo Pallavicini Rospigliosi a Roma. Orazio lo denunciò e la causa durò ben 7 mesi. Del processo è rimasta una testimonianza documentata molto dettagliata che colpisce con la sua naturalezza nello descrivere i metodi inquisitori del tribunale (come ripetere le accuse mentre si schiacciano i pollici che per un artista costituisce una sofferenza ancora maggiore). La descrizione era riscoperta nel XX secolo, e con la chiave di lettura femminista è diventata famosissima.
Dopo la chiusura del processo Orazio sbrigò un matrimonio per Artemisia con un pittore modesto fiorentino - con il quale si trasferì poco dopo a Firenze, anche per dimenticare - che servì a restituire alla figlia umiliata nel suo essere donna e pittrice uno status sociale di sufficiente onorabilità.
A Firenze ebbe tanti successi: prima di tutto venne ammessa all’Accademia delle Arti del Disegno, il ciò è importante perché fu la prima donna che poteva godere di questo privilegio[2]. Inoltre, seppe mantenere buoni rapporti con gli aristocrati di Firenze, come anche la famiglia Medici, Galileo Galilei o Michelangelo Buonarroti il giovane, non soltanto per le buone parole di suo padre, ma più per il suo talento sempre più evidente. Le sue opere più famose dal periodo fiorentino sono la Conversione della Maddalena e la Giuditta con la sua ancella, oggi visibili al Palazzo Pitti e una seconda versione della Giuditta che decapita Oloferne[3]. E’ importante dire che Artemisia spesso realizza un autoritratto nelle figure femminil, sempre energiche, in atto di movimento. Spesso fa così perché glielo chiedono i committenti, per poter ricordare il volto della pittrice sempre più famosa.
Dopo il soggiorno fiorentino la pittrice nel 1621 ritorna a Roma - anche per problemi di convivenza e scontri con i creditori - da sola, indipendente con le figlie, l’anno prossimo invece è suo padre che si allontana dalla città eterna, recandosi a Genova.
Roma in quegli anni è ancora caratterizzata dalla presenza dei caravaggeschi, ma cominciano a sbocciarsi le tendenze classicheggianti della scuola bolognese, come appaiono piano piano anche i segni del barocco.
Artemisia si ritrovò bene a Roma, grazie alla sua capacità di adattarsi alle novità artistiche presenti a Roma, come segno per questo basta ricordare che la pittrice entrò a far parte dell'Accademia dei Desiosi. Tuttavia, nonostante la notorietà dell’autrice, questo periodo romano non fu così ricca di commissioni, come la pittrice avrebbe aspettato dopo i successi fiorentini. Sono probabilmente databili in questo periodo le seguenti opere sue: il Ritratto di gonfaloniere, esempio per le capacità da ritrattista della pittrice o la Giuditta con la sua ancella che attesta la sua capacità di padroneggiare gli effetti chiaroscurali del lume di candela.
Nel 1630 si trasferì a Napoli con la speranza di poter godere di più possibilità di lavoro, rispetto a Roma. Una sua opera caratterizzata e creata nell’ambito partenopeo è l’Annunciazione.[4] Il periodo a Napoli risulta fruttuoso da tutti i punti di vista: Artemisia conobbe gli artisti maggiori presenti nella città meridionale, ricevette delle commissioni importante, e dal punto di vista umano, potè dedicarsi anche all’edicazione delle proprie figlie. Tra l’altro, è a Napoli, che la pittrice eseguì delle commissioni per dipingere delle tele per una chiesa, la cattedrale di Pozzuoli. (cfr. nota 3.)
Nel 1638 l’attrice si recò a Roma per raggiungere suo padre, pittore di corte di Carlo I, appassionato di arte (dispone della pittura di Artemisia di particolare rilievo dal titolo Autoritratto in veste di Pittura), e i due potevano di nuovo collaborare nella realizzazione di alcune commissioni, finchè il padre non morì nel 1639.
Dopo Londra, in base alle informazioni presenti in corrispondenze con altri pittori e collezionisti, probabilmente tornò a Napoli, dove morì nel 1653.
Analisi dell’opera
La scena rappresentata dalla pittrice prende come oggetto una scena dell’Antico Testamento. Giaele, dopo aver chiamato con furbizia Sisara, che e’ un capitano sconfitto dell’esercito degli israeliti, che viene seguito e sfugge dai nemici, lo uccide infilandogli un chiodone di ferro nel cranio,
La scena sembra tranquilla a prima vista, il guerriero basso e non particolarmente attraente come uomo, dorme tranquillamente e profondamente, la posizione del suo corpo è comodo e sembra che cerchi la vicinanza di Giaele, anche per riaparasi dagli incubi. Sisara costituisce un elemento statico, fermo nella parte sinistra del quadro, ma il suo stato comincia a dare una sensazione paurosa agli spettatori, anche per lo sfondo nero (tipico dei caravaggeschi) in contrasto evidente con il giallo del vestito di Giaele o i colori morbidi del velluto della veste di Sisara.
La figura della ragazza che è invece in movimento, non statica. E’ vestita di giallo setoso di particolar lume, quasi da unica fonte di luce rispecchiata dal colore nella scena, un colore vivo, agressivo, in contrasto con il bianco pallido della pelle di Sisara o il rosso spento del suo vestito. Giaele è pronta a colpire, tutta energica, concentrata, distrugge l’apparente tranquillità del quadro con il movimento del braccio. Il guerriero ha posato anche la spada – vediamo la particolare attenzione dedicata alla rappresentazione dei dettagli minimi - in giusta distanza, fidandosi completamente della donna, che lo colpisce nel sonno, e non da guerriero, non in modo onesto, ma con intrica. La crudelta’ del suo movimento, la fermezza nello sguardo toglie la sua eleganza derivante dai vestiti e dall’acconciatura, e la rende una donna forte e determinata che domina la scena e nonostante di natura sia più debole dell’uomo riesce a vincerlo alla fine.
Solo la tematica del quadro lo può rendere somigliante all’opera forse più famosa della pittrice, la già menzionata Giuditta decapita Oloferne: entrambi esprimono - però in maniera del tutto diversa - lo shock subito dallo stupro. Ci puo’ essere un riferimento anche la figura maschile dei capelli neri e barbuto, ma non oso di dichiarare delle affermazioni del genere, che sarebbero troppo forzate.
Gli elementi del chiaroscuro sono segni dell’esperienza caravaggesca: nello sfondo nero ricoperto di ombra si legge solo il nome della pittrice scolpita su una colonna o ara o tomba di marmo.[5]
Gli strumenti per l’omicidio richiamano il Nuovo Testamento della Bibbia: chiodo e martello, conosciuti per tutti come cause della morte di Cristo.
Appendice
GENTILESCHI, Artemisia. Giaele e Sisara
Bibliografia, sitografia e „esperienzografia personale”
Tiziana Agnati, Artemisia, Dossier Art n° 172, Giunti, 2001
http://www.svreeland.com/image-gal.html
http://it.wikipedia.org/wiki/Artemisia_Gentileschi
Visita della mostra Caravaggio e i Caravaggeschi a Firenze, 2010.
Film di Agnes Merlet, Artemisia. Passione Estrema. Francia 1998, Con Michel Serrault, Valentina Cervi, Miki Manojlovic, Claudia Giannotti, Anna Lelio, doppiato e sottotitolato in ungherese, andato in onda su Duna TV.
A művészet története. A barokk. Corvina Kiadó, Budapest, 1987.
[1] Oggigiorno è discusso se la tela non fosse stata retrodatata dalla pittrice stessa: sulla figura di Susanna è ben visibile la pressione dei due maschi, uno, in base alle testimonianze registrate durante il processo di stupro, somigliante a Tassi, l’altro maschio, più vecchio invece mostra delle similtudini con l’incisione che rappresenta Orazio Gentileschi, eseguito da Antoon Van Dyck.
[2] E’ da precisare, che nonostante la fama di Artemisia, non solo lei era una pittrice nota nell’epoca: la sua scelta era difficile, ma non eccezionale, basti pensare a nomi come Sofonisba Anguissola.
[3] E’ importante sottolineare, che la pittura dal titolo Giuditta che decapita Oloferne che rappresenta una scena violentissima, soprattutto nell’ultimo periodo delle ricerche scientifiche è stata spesso interpretata in chiave psicologica e psicoanalitica, come desiderio di rivalsa rispetto alla violenza subita.
[4] Spesso si dimenticano o si mettono da parte apposta le opere della pittrice che non rappresentano scene bibliche, con delle eroine energiche che uccidono l’uomo presente nel quadro, nonostante abbia compiuto anche delle tele di tematiche bibliche di una tonalità non così scura, ma illuminata dal potere della fede, come il quadro in questione.
[5] Forse un pensiero troppo forzato, ma questi strumenti potrebbero essere anche utilizzati per lo scolpire del nome della pittrice sulla colonna di marmo. Si potrebbe dare quindi un’interpretazione autobiografica alla scena - sempre mantenendoci al livello della soggettività e non mescolando troppi elementi biografici nel pensiero – come se Artemisia stessa, rappresentata un po’ da Giaele anche dalle linee del suo volto, desse il suo consenso alla morte dell’uomo, e firmasse la sua condanna a morte.
Giudizio del Prof. Alessandro Rovetta:
La scheda sul dipinto di Artemisia Gentileschi conservato presso il Museo di Belle Arti di Budapest e proveniente dalla collezione Estherazy é organizzata in due parti, la prima dedicata alla pittrice e la seconda all'opera. I dati biografici e critici forniti nel profilo dell'artista sono corretti e consentono un rapido e preciso inquadramento della personalità e del contesto. Anche la descrizione del dipinto raffigurante Sisara e Giaele è molto convincente e introduce con chiarezza alle principali questioni filologiche e iconografiche sollevate dal dipinto. La scrittura e l'argomentazione è vivace e comunicativa. Il giudizio è quindi molto positivo.
Alessandro Rovetta